Dal libro “Un popolo in festa e in cammino” di Don Luigi Guglielmoni, Clementina Corbellini e Giulia Urgeletti Tinarelli
Dopo i Frati, i parroci, le Suore, le famiglie, i quartieri e la vita della Comunità, è il turno delle persone che hanno lasciato una traccia nella storia di Sant’Antonio.
La prima domanda che immaginiamo ci venga posta a questo proposito, probabilmente è: “Perché queste e non altre?“. Sinceramente non sappiamo cosa rispondere. Probabilmente la verità è che queste persone erano più conosciute di altre a chi scrive. Una ragione forse banale ma sostanziale per avere diritto ad entrare in questo libretto che, lo ripetiamo, non vuol essere la documentazione storica di questi primi 90 anni della nostra Parrocchia, ma uno sguardo affettuoso sulla vita della nostra gente. Alcune “storie di casa nostra“, appunto.
Ida Berzieri (1893-1974)
Anche se riteniamo che tra i fedeli che hanno lavora-to per la nostra Parrocchia non si debbano fare delle graduatorie – loro certo non lo vorrebbero – dobbiamo riconoscere che Ida Berzieri a questa causa ha dedicato quasi tutta la sua vita. Orfana di madre, era stata allevata da una zia molto religiosa, Delfina, che, non per necessità ma per amore della chiesa, trascorreva il tempo libero vendendo, sul sagrato, cartoline e oggetti sacri, il tutto per aiutare le finanze della Parrocchia che erano davvero… a terra! Ida Berzieri in gioventù aveva studiato, non tanto ma quel poco che le consentì di occupare un posto da impiegata alla Società delle Terme (nessuna facilitazione, il cognome non deve trarre in inganno perché non c’era alcuna parentela tra lei e il famoso medico scopritore delle virtù terapeutiche delle nostre acque) ed era proprietaria di una bella casetta, situata in viale Matteotti: quella stessa casa dove ora ha sede la farmacia Rossi. Giunta all’età della pensione, essendo nubile, dedicò tutto il suo tempo alla causa dell’Ospizio parrocchiale, mettendoci anche molto del suo come si legge nel volume scritto da Padre Roberto, “La Parrocchia di SantAntonio: il primo cinquantennio” (pag. 220): “Tra i molti benefattori della Casa di Riposo Sacra Famiglia, merita il primo posto Ida Berzieri la quale, mentre il parroco stava percorrendo inutilmente mezza Italia con la speranza di trovare un Istituto religioso in grado di concedere due o tre suore per l’assistenza ai nostri anziani, diede una prova di generosità quasi eroica mettendo se stessa e quanto possedeva al servizio dei primi ospiti, che ben presto avevano riempito la casa. Tutto a posto, in cucina, in refettorio, in dormitorio e sala soggiorno. E ciò che non doveva assolutamente mancare erano la concordia e la pace, la Messa ogni mattina e il Rosario prima del pranzo. Però ognuno era libero di partecipare o no. Con il danaro ricavato dalla vendita della sua casa e dei suoi beni, fu possibile completare la parte Nord dell’edificio”.
Chi scrive l’ha conosciuta personalmente molto bene e ne ricorda con piacere il carattere sempre gioioso, il volto sempre sorridente, la capacità sia di accogliere la battuta scherzosa sia di sdrammatizzare le situazioni meno piacevoli.
Dopo la sua morte, tra le sue carte, si è trovato un libretto di pensieri e preghiere che iniziava così: “Il Signore predilige chi dà con gioia“. Era stata questa la linea guida della sua vita: una vita al servizio degli altri.
Rosa Compiani (1911-1974)
“Rosa Compiani“: il nome cade nel vuoto, la mente fruga invano nella selva dei ricordi. Basta però aggiungere: “la Rosina che viveva con le Suore” e subito nella gente del quartiere di Sant’Antonio si ripresenta nitida la figura di questa donna, accurata nell’ordine di abiti modesti, sempre all’opera, riservata, ma aperta al sorriso con tutti.
La si vedeva per il viale Matteotti accompagnare con vigile attenzione nugoli di bambini, quelli che l’Istituto delle Ancelle del Santuario in passato ha accolto perché senza il sostegno della famiglia; la si incontrava in Parrocchia impegnata nelle varie iniziative formative, sempre disponibile a collaborare, a mettere a disposizione il proprio tempo, le proprie energie.
La sua discrezione non aveva potuto impedire che trapelasse la sua straordinaria abilità nel ricamo. Molte mamme, nel quartiere, si rivolgevano a lei per far confezionare qualche capo di dote per le figlie prossime al matrimonio, ma anche per far rammendare abiti che non potevano essere sostituiti da nuovi acquisti (quelli erano tempi duri per molti…).
Rosina non ha tenuto per sé questa sua dote davvero eccezionale, l’ha messa al servizio di tutti: delle bambine che durante i mesi estivi frequentavano il corso di cucito organizzato dalla Parrocchia e da lei diretto con pazienza infinita; della chiesa cui ha donato, per l’addobbo dell’altare, preziosi ricami, frutto di manualità instancabilmente esercitata, di occhi puntati al minimo particolare, ma soprattutto di un cuore generoso e umile che ha cercato la bellezza di un’esistenza offerta al Signore.
Francesco Calda: un generale, operatore di pace (1889-1970)
Nato a Piacenza da nobile famiglia, dopo la laurea intraprese la carriera militare presso l’Accademia di Modena. Come capitano fece la campagna dell’Etiopia e partecipò alla prima guerra mondiale, meritandosi decorazioni al valore militare.
Al termine del conflitto fu trasferito presso il Distretto Militare di Parma dove esercitò il suo mandato per molti anni. Risiedeva in via Bottego con la sorella Alba. Uomo forte e semplice, dotato di grande fede, si è distinto per generosità e disponibilità. Quanti giovani, chiamati alla leva militare, egli ha aiutato! Era nota anche la sua carità, fatta in silenzio.
Ha amato la nostra città e i suoi concittadini. Non mancava mai alla Messa domenicale, coltivando un rapporto intenso e cordiale con i Frati e in particolare con il Padre parroco. Nel 1961, quando Padre Roberto Lecchini lascia la Comunità di Sant’Antonio dopo averla presieduta per 24 anni, il generale Calda scrive un elogio per il “suo” parroco evidenziandone lo zelo pastorale, la cultura e la fattiva attenzione alla realtà locale. Poi aggiunge che, nella seconda guerra mondiale, Padre Roberto ha saputo “con speciale tatto, in unione a saggezza e accoratezza, affrontare e superare situazioni assai delicate e difficili, prodigandosi per tutti e in tutti i modi, senza risparmio alcuno, pur di riuscire a prestare ogni possibile aiuto, dimentico di porre a repentaglio, per questa ininterrotta opera di assistenza e di conforto, la stessa sua incolumità personale” . Il generale aveva intuito quanto solo ora sta emergendo nella storiografia del nostro Paese: l’urgenza di riscoprire l’apporto quotidiano ma determinante di tanti religiosi e parroci al bene della gente e alla mediazione tra le parti in conflitto.
Rachele Editti Bertani (1882-1966)
Era la fornaia del quartiere di Sant’Antonio, avendo sposato Cesare Bertani che possedeva un forno, con relativo negozio, in una casa situata quasi di fronte alla chiesa di Sant’Antonio.
Lui faceva il pane, lo cuoceva, e lei stava al banco a venderlo: i clienti erano tutti “nelle sue mani“. Di questa sua posizione privilegiata “approfittò” per aiutare chiunque sapesse nel bisogno. Soprattutto negli anni ’30 e anche dopo, durante la seconda guerra mondiale, Rachele si diede da fare, come poté, per tutti.
Piccola di statura, magra, sorridente, il volto solcato dalle rughe, Rachele lavorava nel silenzio e nel silenzio, talora anche all’insaputa dei famigliari, ma sempre con il consenso palese o implicito del marito Cesare, realizzava il comandamento dell’amore per il prossimo.
Una nipote, che ha ereditato da lei la stessa attenzione agli altri, raccontava giorni fa che lei era solita dare il pane anche a persone che di certo non l’avrebbero mai pagato. A quei tempi andavano di moda i libretti e le cose funzionavano così: i clienti arrivavano, compravano e gli importi dovuti venivano segnati su due libretti che restavano uno nelle mani del commerciante, l’altro del cliente; a fine mese avveniva il pagamento.
Quando un conto non veniva mai saldato e Rachele intuiva le reali difficoltà del debitore, faceva sparire il libretto che finiva regolarmente in solaio, poi non se ne sapeva più niente: era questa la sua forma molto personale di procedere al “recupero crediti“.
Anche se lavorava molto, Rachele non mancava all’appuntamento giornaliero con il Rosario: c’era sempre un momento, in genere il pomeriggio, in cui il negozio era chiuso e lei e le figlie si riunivano per pregare, magari con l’occhio all’orologio, magari un po’ in fretta…, ma non c’era giorno in cui questo non avvenisse.
Morì in tarda età e col passare degli anni divenne sempre più piccola e curva, ma il suo viso sorridente resta nella mente e nel cuore di chi l’ha conosciuta come un esempio di cristianesimo reale.
Siamo certi che in cielo, Colui che ha detto: “Non chi mi dice “Signore, Signore..”, ma chi fa la volontà del Padre mio…” le avrà reso centuplicato tutto il pane che lei, su questa terra, ha regalato ai poveri.
Clelia Dall’Asta Frigeri.. una parrocchiana di Montauro (1904-1990)
“Che cercate, anime ansiose di questo mondo? Cercate Dio e avrete trovato tutto. Il mio povero nonno diceva che chi s’allontana da Dio s’allontana da tutto. C’è della gente al mondo che si sente importante se riesce a parlare con una persona che conta: ma, ditemi, chi conta più del Signore? Fatevi dunque suoi amici. Non si può pretendere che il Signore faccia a modo nostro, ma bisogna pregarlo che ci aiuti a fare la sua volontà. Fatti amico dei poveri e sarai benedetto da Dio. Il bene che si fa agli altri è fatto a noi stessi“.
Donde vengono queste massime? Sono le meditazioni di un dottore della Chiesa? No, sono solo alcuni dei pensieri che Clelia Dall’Asta ha lasciato, morendo, ai propri figli: la sua eredità.
Clelia era una contadina, madre di otto figli, nata a Tabiano nel 1904 e morta a Salso nel 1990, che non ebbe certo una vita senza dolori: vide morire un figlio di due anni in un tragico incidente, poi morì anche il marito a seguito di una grave malattia; e ciò avvenne solo pochi mesi dopo che era nato il suo ultimogenito.
E lei restò vedova, a soli 42 anni, con tutto il lavoro che una famiglia così numerosa comportava. Ma le disgrazie e le “croci“, come le chiamava lei, non hanno mai fatto tremare questa “roccia vivente” – non dimentichiamo che la fortezza è un dono dello Spirito Santo – anzi, a ogni prova la sua fede s’irrobustiva, senza nulla togliere alla sua dolcezza, riservatezza e nobiltà d’animo.
Presidente dell’Azione Cattolica, aveva sempre il timore di non aver fatto abbastanza per il Signore e per la sua famiglia: mai un lamento per la sorte che le era capitata. Impossibile dire in poche righe la grandezza di questa donna che, lo ripetiamo, rivela nei suoi pensieri una fede e una profondità degne di un dottore della Chiesa.
Meriterebbe, da sola, un libro tutto per sé.
Noi ci limitiamo a trascrivere alcuni pensieri che sintetizzano i suoi principi di vita e i suoi rapporti con il prossimo e con Dio:
“I momenti più belli della mia vita li ho vissuti quando potevo fare la Santa Comunione; i momenti più tristi li ho provati vedendo che tante persone non volevano conoscere e amare il Signore“. Rivolgendosi ai figli dice: “Vogliatevi bene, aiutatevi tra fratelli, domandate perdono a Dio. A tutti voi, miei cari, do la mia benedizione… Ricordate che non è quello che possediamo che può renderci felici, ma comprensione e amore ed un sorriso“. Prima di morire si rivolge a Dio così: “Signore, Vi ringrazio di tutto il bene che mi avete fatto in questa vita, anche delle tribolazioni che mi avete mandato. Per mezzo della tribolazione mi avete preservato da tanti peccati, da tanti pericoli. La via della croce fu per me una grande scienza“.
Mario Faroldi (1913-1987)
Nel giugno del 1915, quando si tenne la consacrazione ufficiale della chiesa di Sant’Antonio, Mario Faroldi non aveva nemmeno due anni e da allora la sua vita, come quella degli abitanti dei “Pescadur“, si intrecciò con la storia di questo luogo sacro, che rimane un simbolo per il quartiere e per la nostra città.
Intorno alla chiesa nacquero e si moltiplicarono mille attività, grazie all’inventiva dei Frati e di tutti coloro che collaboravano attivamente con loro. E Mario era uno di questi.
C’erano le attività ricreative, l’Oratorio, il campo da calcio, i campeggi estivi, ma c’erano anche le battaglie civili combattute tenacemente da Padre Roberto, parroco di allora, per edificare la Scuola Materna, per ottenere una farmacia di quartiere, per costruire la Casa di Riposo. E Faroldi non rimase spettatore ma divenne questuante, scrisse lettere ai giornali, organizzò varie attività, insomma si diede da fare perché capiva che la chiesa, il quartiere e la città erano anche suoi.
Nel suo piccolo si sentiva responsabile.
Ma là dove diede il meglio di sé fu nel mitico teatrino dei Frati: lì, con il fratello Carlo Demetrio e con tanti giovani di allora, mise in scena molte commedie, magari ingenue ma mai banali, davanti a un pubblico di quartiere che partecipava e si ritrovava in queste storie.
Più tardi collaborò con Padre Agostino, un altro grande sensibilissimo Frate, che creò la scuola di canto e ogni anno riproponeva lo “Zecchino d’oro” con i ragazzi della Corale.
In queste occasioni Mario era giullare, faceva il presentatore e soprattutto recitava le sue poesie in dialetto, divertenti e umanissime.
Oggi qualcuno le fa ancora circolare, magari in occasione di un pranzo sociale o di una gita. In questo modo, a diciotto anni dalla sua scomparsa, Mario Faroldi con le sue poesie ci aiuta ancora a recuperare un linguaggio, dei personaggi e dei brani di una storia comune.
Pina lapella Botti (1908-1997)
Per i salsesi e per i clienti della sua merceria, situata in viale Matteotti, era “La Pina d’Brenna“, per i vicini, grandi o piccoli che fossero, era diventata negli anni, per la squisitezza dei suoi modi premurosi e intuitivi, “mamma Pina“.
Originaria di Tabiano, si era trasferita a Salsomaggiore dopo il matrimonio con Dante Botti, massaggiatore, che lavorò per molti anni al “Grand Hotel” e, nella stagione invernale, a Sestrière. Poi, dal 1963 fino al pensionamento, presso la casa di cura “Carlo Jucker” qui a Salsomaggiore.
Giuseppina Iapella, questo il suo nome, era una donna piccola, dalla struttura esile ma forte nella volontà e determinata nell’impegno, riservata ma attenta alle esigenze di quanti l’hanno incontrata.
Dall’alba a tarda notte era sempre in movimento: con la partecipazione alla Messa iniziava ogni giornata e con il Rosario a portata di mano nella tasca del grembiule affrontava il lavoro in negozio e in casa; una casa aperta a chiunque bussasse o avesse bisogno di fermarsi per una confidenza, per un aiuto, per un po’ di tenerezza e di ottimismo.
Condivideva con il marito e con la figlia questa accoglienza generosa: ciascuno dei tre a modo proprio secondo la specificità dei diversi caratteri, contribuendo a trasformare l’ospite in persona di famiglia.
La Pina viveva il tempo come dono: senza trascurare i suoi doveri e i suoi lavori, che peraltro riusciva a compiere con puntualità e con cura, era sempre disponibile a interrompere o a tralasciare ciò che stava facendo per dare spazio alle esigenze di qualcun altro. Le persone avevano la priorità dentro e fuori casa. La sua compagnia era cercata da bambini e da adulti, forse per la fulmineità e l’acutezza con cui coglieva le situazioni.
Donna di spirito, capace di garbate ma incisive battute, ha condito di bene le ore buie e le ore assolate della propria esistenza in naturalezza di rapporti, di volta in volta vissuti nella nota della gioia festosa o della compassione, della tenerezza o della fermezza decisa, sempre con fiducia nella vita e con il rispetto profondo delle persone.
Claudio Parmigiani (1946-1993)
“Non sono mai stato così in pace e così sereno come ora, perché mi sento libero. Ho potuto finalmente condividere un po’ la croce di Cristo e dei sofferenti. Ho provato sì la paura del dolore, ma mai la disperazione. E mi ritengo fortunato per le tante persone che mi vogliono bene; in particolare per la mia famiglia che soffre ma che è serena“. Queste parole, dette da Claudio ad alcuni amici negli ultimi giorni della malattia, sigillano un percorso intenso di ricerca, di apertura al mistero, di coraggio, di abbandono totale alla volontà di Dio, percorso che la morte ha illuminato di verità.
Insieme con Luciana, sua sposa, con i figli Sara ed Emanuele e con tante, tante persone incontrate lungo il cammino, in ogni ambiente e circostanza, in ogni esperienza, Claudio si è posto alla sequela di Gesù, certo che chi ascolta le sue parole e le mette in pratica “rimane saldo come la casa sopra la roccia“.
E tutto, nella sua breve esistenza, si è alimentato alla fiamma della fede e ha dato forma al disegno di una vita scritta da sempre, dall’eternità: la sua passione per la Chiesa, manifestata prestissimo e, via via, sempre più cercata come comunità unita nella preghiera; l’amore per la famiglia e per gli amici, piccoli e grandi, amore che si esprimeva e si espandeva in gesti di tenerezza, in ospitalità fraterna.
E poi la predilezione per i poveri, per gli ultimi della terra, testimoniata fattivamente nel nome di una pace che è frutto di giustizia e di misericordia; e ancora l’amore per l’arte e per la natura, coltivato non fine a se stesso ma avvertito come specchio e segno di bellezza e di dono.
Dentro le realtà, ma non da esse condizionato, Claudio, scelta dopo scelta, nel susseguirsi di esperienze determinanti, (Bose, Siccomonte, Spello, Lagrimone; la famiglia, il volontariato…) nella semplicità e nella coerenza, come in un abbraccio di tutto il creato, si è incamminato verso “la dimora di Dio con gli uomini” di cui parla l’Apocalisse, e, a quanti l’hanno conosciuto, salsesi o forestieri, ha lasciato, oltre al ricordo, l’invito a donare la propria vita a Dio, con generosità e con fiducia infinita.
Francesco Urgeletti (1907-2000)
Pina Tibiletti Urgeletti (1908-1986)
Francesco non era salsese “doc“: era nato a Napoli dove la sua famiglia, di origine lombarda, risiedeva temporaneamente per ragioni di lavoro. Ma si considerava salsese a tutti gli effetti perché a Salso era arrivato da bambino, a soli 9 anni e, da allora, l’aveva sempre considerata la “sua” città: sua, perché lì aveva trascorso gli anni belli e magici della giovinezza; lì aveva conosciuto Pina Tibiletti, il grande amore della sua vita; lì aveva studiato, per quel poco che le disponibilità familiari consentivano; lì, a soli 15 anni, aveva cominciato a lavorare.
Pina Tibiletti invece era salsese per parte di madre e apparteneva a quella famiglia della via Trento della quale già abbiamo parlato. Era la terza di sei fratelli; quando la mamma morì aveva solo sette anni.
Quando si sposarono – correva l’anno 1932 e si era in piena crisi mondiale – Francesco, per ragioni di sicurezza economica, accettò l’invito di andare a lavorare a Tabiano quale amministratore dell’azienda agricola “Corazza” e in quell’azienda lavorò per il resto della sua vita (circa 60 anni); a Tabiano Castello, naturalmente, andò ad abitare con la sua sposa e lì, per più di 30 anni, visse la famiglia.
Che dire della famiglia Urgeletti? Era molto simile a tutte le altre: due genitori, due figlie, i nonni, tanta solidarietà con i bisognosi e soprattutto – in tempo di guerra – la porta aperta agli sfollati.
Pina, pur essendo rimasta orfana in tenera età, era ottimista di carattere, piena di fiducia e di speranza. Amante del creato, apprezzava tutto ciò che la circondava: i fiori, gli alberi, gli animali e, naturalmente, gli esseri umani, con una particolare predilezione per i vecchi.
Di lei, che militò tutta la vita nelle file dell’Azione Cattolica, i famigliari ricordano che, quando accadeva qualche guaio, diceva: “Aspettiamo a piangere perché non si sa mai se quel che ci capita sia un male o un bene. Fidiamoci del Signore“.
Pina e Francesco, sebbene conducessero una vita riservata, non mancavano di essere presenti là dove serviva aiuto, tanto che le figlie scherzando li chiamavano “la squadra del pronto intervento“.
In tempo di guerra Pina, essendo infermiera, curò malati e feriti di tutti i fronti, senza distinzione di opinione politica o di razza. Un giorno medicò un tedesco che in un combattimento aveva riportato una ferita al cervello e lo salvò da morte certa: per questo suo atto d’amore i tedeschi risparmiarono poi dall’incendio le case del paese.
Francesco, dal canto suo, d’accordo con il signor Carlo Corazza, si adoperò in ogni modo perché gli abitanti di Salso e di Fidenza potessero acquistare a prezzi calmierati i prodotti alimentari dell’azienda: in tempo di guerra, si sa, la borsa nera è una delle attività più praticate, ma dall’azienda Corazza non uscì neppure un etto di burro a prezzo illegale.
Sempre durante la guerra, difese strenuamente le stalle dei mezzadri dell’azienda, che venivano periodicamente “visitate” dai partigiani, i quali “prelevavano” buoi e mucche per la causa partigiana. “D’accordo un vitello, ma perché uccidere una mucca gravida o un bue, animale necessario ai lavori dei campi?“. Questo Francesco non lo capiva e proprio per questo si recò al comando partigiano e lì scoprì, con meraviglia del capo, il professor Cosenza, che le mucche e i buoi non erano mai giunti al comando: avevano certo preso altre strade… I due si accordarono allora perché l’imbroglio finisse ma ciò non piacque agli “altri” che, una notte, a volto coperto si presentarono a casa di Francesco, lo invitarono a seguirlo, lo condussero in un bosco e lì, dopo averlo ridotto in fin di vita, lo abbandonarono, forse ritenendolo morto.
Si salvò e sopravvisse, grazie soprattutto alle sapienti cure di Pina, ma quelle percosse avrebbero lasciato il segno su di lui per tutta la vita. Persino qualche giorno prima di morire, lamentando i dolori alla testa diceva: “Ho male dove mi hanno picchiato i partigiani“. Ma non c’era risentimento nelle sue parole. D’altro lato se avesse voluto vendicarsi, o anche solo avere giustizia, avrebbe potuto, a guerra finita, denunciare gli autori del fatto ai tribunali che già avevano ripreso a funzionare. Un contadino era andato a dirgli: “Io conosco le persone che le hanno fatto del male, posso dirle i nomi e testimoniare contro di loro“. Ma Francesco non volle conoscerli; ormai aveva perdonato, la guerra era finita… bisognava dimenticare e ricominciare a vivere.
Naturalmente, in una vita durata 93 anni, gli avvenimenti salienti furono tanti ma non possiamo qui raccontarli tutti. Ci basterà ricordare quanto disse, un giorno, un assicuratore di Parma che lo conosceva molto bene: “Del ragionier Urgeletti bisognerebbe fare lo stampo per riprodurlo quando sarà morto: di uomini così ce ne sarà sempre più bisogno“.
Don Luigi, il nostro attuale parroco, in occasione del funerale, scrisse questa preghiera: “Signore, Francesco ha servito il nostro Paese con responsabilità e onestà, affrontando anche situazioni difficili senza mai svendere la propria dignità e il bene comune. Ha perdonato chi gli ha fatto gravemente del male, lasciando il giudizio ultimo a Te, Signore della storia e delle coscienze: aiutaci a conservare nel cuore il prezioso esempio di vita che ci lascia“. Lui, nel suo testamento, ha scritto: “La mia vita si riassume in un nome: Pina. Lei è stata la mia fortuna, dal dì che ebbi la sorte di conoscerla fino all’ultimo“.