Dal libro “Un popolo in festa e in cammino” di Don Luigi Guglielmoni, Clementina Corbellini e Giulia Urgeletti Tinarelli

…..continuano qui alcune “storie di casa nostra

Pina Pollani Botti (1908-2000)
Pina Pollani, coniugata Botti, non aveva figli, tuttavia non era certo persona da piangersi addosso o da rimuginare su ciò che le era stato negato dalla sorte: si rimboccò invece le maniche e dedicò il suo tempo, oltre che al marito Mario, a opere benefiche e ad attività parrocchiali.
Là dove poteva servire aiuto, lei era presente: nei campeggi dei ragazzi come cuoca, nelle pulizie della chiesa, alla Caritas, nel soccorso ai poveri, nell’assistenza ai malati. Nei campeggi estivi, mentre la Pina era addetta alla cucina, il marito Mario faceva da “papà” ai ragazzi. Una volta, a Isolaccia, un gruppo era andato in gita a Livigno a piedi passando dai laghi di Cancano. Alla sera c’era preoccupazione tra i Frati perché il tempo era peggiorato e non si vedevano tornare… Mario coinvolse la Guardia di Finanza e con una jeep si mise alla ricerca dei ragazzi, come fossero tutti suoi figli. Finalmente li trovò in una casa abbandonata dove si erano rifugiati per ovviare al maltempo. E li ricondusse a casa, con una gioia immensa. In quell’occasione gli agenti della Guardia di Finanza chiusero gli occhi sul “povero contrabbando” di cioccolato, fatto dai giovani di Sant’Antonio.
Oltre a una presenza operosa, serena e rassicurante, Pina Botti regalava al prossimo il proprio ottimismo e molto spesso anche, con il complice assenso del marito, beni e denaro della sua famiglia.
Membro attivo dell’Azione Cattolica, visse profondamente i principi della sua fede, alimentandola costantemente con preghiere e azioni caritative che mostravano concretamente quanto fosse vivo il suo amore per il prossimo. Quando ancora non esisteva la Caritas, c’era tuttavia in Parrocchia, con compiti analoghi, la “Società Femminile di San Vincenzo de Paoli” della quale Pina Botti era una delle responsabili. In Parrocchia è ancora consultabile il Registro che testimonia quanto bene abbia fatto questa associazione procurando – a proprie spese – alle famiglie povere tanti generi di prima necessità nonché ogni anno il “Pacco di Natale“. Questa attività durò dal 1943 al 1956.
Pina Pollani Botti trascorse in solitudine, seppure sempre assistita dai famigliari, gli ultimi tempi della sua vita, quando la malattia bussò alla sua porta: oggigiorno, si sa, tutti vanno molto di fretta e non trovano il tempo per le visite agli infermi. Lei, che aveva sempre aiutato tutti quando era in salute, non si lamentò per questo, ma accettò di buon grado anche questa situazione per lei dolorosa, pensando di farne un’ultima, silenziosa e dolcissima offerta a Dio.

Eloides Avanzini Fassi (1928-2005)
Tra le frequentatrici più assidue della nostra chiesa, nel secondo banco, a sinistra, spesso accompagnata dalla figlia Mariliana e dal genero Giorgio, non era difficile trovare Eloides. Il 14 marzo di quest’anno 2005, ci ha lasciati: adesso certamente è lei che prega per noi.
A sua figlia Mariliana abbiamo chiesto un ricordo di Eloides. Eccolo:
La mia mamma proveniva da una famiglia di origini salsesi e precisamente di Montauro: i miei nonni, Gaetano Avanzini e Maria Bandini ricordavano spesso il periodo in cui, da giovani, videro nascere la nostra chiesa. Mia madre invece ha potuto frequentare la Parrocchia solo negli ultimi decenni di vita perché dopo il matrimonio si trasferì a Fidenza: forse per questo quando poté tornare al “suo nido”, come lo chiamava lei, la sua gioia fu veramente grande. Di temperamento mite e discreto, era un’anima semplice e di grande valore perché rassicurata dalle certezze di una fede alimentata dalla preghiera e rafforzata dalla sofferenza. Spesso indisposta, non si lamentava mai e tutto accettava con speranza nel suo Signore. Aveva grande senso della appartenenza alla Parrocchia e offriva al Signore, per il bene di tutti, le sue sofferenze e i pesanti limiti che esse le imponevano.
Anche se fra i banchi ora non vedo più il suo dolce sorriso, so che è sempre al mio fianco come e più di prima, perché il suo spirito vive nella comunione dei santi ed è più che mai presente e attivo a favore della “sua” Comunità”.

Valeria Conti (1950-1999)
Questa è la vergine saggia che il Signore ha trovato vigilante… All’arrivo dello sposo entrerà con lui alle nozze…“. Così è apparsa Valeria a quanti l’hanno incontrata e hanno goduto della sua presenza. Verginità, vigilanza, fedeltà sono stati i caratteri distintivi della sua esistenza. Entrata nel 1974 nella Congregazione di Madre Speranza a Collevalenza, subito si è fatta apprezzare per quella “sapienza” del cuore che, unita ad una accurata preparazione, la rendeva capace di grandi cose nella quotidianità del servizio: umile nelle responsabilità, perseverante nell’impegno, capace di compassione verso tutti, pronta alla condivisione. Qualità queste che, nella semplicità dei modi e nella naturale modestia, erano affiorate in lei già negli anni dell’adolescenza e degli studi liceali, quando era impegnata come catechista nelle attività della Parrocchia e partecipava alle iniziative di Padre Raffaele. Fu proprio grazie alla direzione spirituale di questo Padre che Valeria comprese di essere chiamata alla vita religiosa.
Le esperienze degli anni trascorsi all’Università Cattolica di Milano, in particolare l’amicizia spirituale con Don Sandro Maggiolini (ora Vescovo di Como) e l’incontro con Padre Raniero Cantalamessa (allora direttore del Dipartimento di Scienze Religiose dell’Università) aiutarono Valeria ad orientare la propria scelta religiosa verso quel ramo delle Ancelle dell’Amore Misericordioso che, senza alcuna apparenza esteriore di consacrazione religiosa, opera nelle strutture e nelle attività temporali vivificando dal di dentro società e professioni.
Tutta l’esperienza di intelligenza e di amore, alimentata passo a passo, ha preso forma nella vocazione religiosa. Mossa dal vivo desiderio di vivere e far conoscere la Misericordia con cui Dio ama gli uomini “come se Egli non potesse essere felice senza di loro“, a Collevalenza Valeria lavorò al consultorio familiare, insegnò al Liceo di Todi, si impegnò nel servizio alle famiglie. Era attiva ovunque avvertisse le necessità di qualcuno.
Il sopraggiungere di una malattia progressivamente invalidante significò per Valeria non più e non solo l’offerta del proprio tempo, del proprio lavoro e delle proprie qualità, ma di tutta se stessa. Immobile e co-stretta al silenzio, per anni visse ogni momento, ogni dolore, sola, unita alla Croce di Cristo.
Comunicava con lo sguardo: uno sguardo intenso, sereno, accogliente che invitava tutti alla speranza, all’abbandono in Dio, Padre di ogni bene.
Valeria ha reso comprensibile a noi tutti il mistero del dolore offerto con gioia a Dio per la salvezza delle anime: davvero la sua vita è stata “un seme fecondo nel dolore, un pane spezzato per amore“.

Maura Gragnani (1949-2003)
Ricordare Maura è sentirsi chiamati alla speranza, quella vera che non delude perché radicata in Cristo.
Della sua breve vita ciò che resta impresso non è tanto il dolore, che pure ha intriso per anni il suo corpo, quanto piuttosto il coraggio nell’affrontare le situazioni della vita, quelle ordinarie come quelle impreviste o eccezionali, di fronte alle quali si misura la propria fragilità o impotenza.
Per Maura la malattia è stata un “incidente di percorso”, come scrivono alcune sue amiche accomunate dalla stessa difficile prova; un incidente accettato con profondo senso religioso e affrontato con rara pazienza. Anche nel ripresentarsi del male, che aveva sperato sconfitto, non ha ceduto alla disperazione ma ha combattuto con tutte le forze, sostenuta dall’amore della sua famiglia e per la sua famiglia.
La malattia, fattasi sempre più invadente, ha cambiato ma non reso sterili le giornate di Maura: nonostante le limitazioni fisiche e continue rinunce, ha mantenuto il suo amore per la vita con fermezza e serenità, contagiando quanti le erano vicini: famigliari, medici e amici. Le testimonianze rese al suo funerale dicono che, giorno dopo giorno, ha saputo dar ragione della speranza alla quale ogni credente è chiamato. Dal suo letto ha continuato a vivere con impegno e generosità la vocazione di figlia, di sposa e di madre, preoccupandosi più degli altri che di se stessa. Attraverso il telefono ha mantenuto contatti con tante persone, ha continuato a interessarsi della Parrocchia, cui si sentiva profondamente legata.
Un suo appunto, scritto a matita, dice: “Ricordati che dobbiamo morire e che nel giorno della morte comincia la nostra vera vita“. Proprio questa fede vestita in abiti feriali, ma capace di togliere l’incertezza della meta, ha sorretto Maura e i suoi famigliari in un viaggio davvero impegnativo e da un’esistenza apparentemente mortificata ha fatto scaturire un patrimonio di bene, trasformando così le tenebre in luce.

Luciana Valentini (1955-2005)
Nel camposanto di Bargone una croce ricorda, nella sua essenzialità, Luciana e la sua innata riservatezza. Fissato ad un braccio della croce un foglio bianco reca una frase dello scrittore Anthony Godby Johnson, che Luciana aveva scelto come sintesi di tutta la sua esistenza: “Vorrei essere ricordata per la mia umanità e per i miei difetti. Mi piacerebbe sapere di essere stata un filo nella ragnatela della vita“.
Madre amorevole, Luciana è stata colpita ancor molto giovane da sclerosi laterale amiotrofica, una malattia progressiva e invalidante, che blocca gradualmente gli arti, come pure l’apparato digerente e persino l’uso della parola. Per sei anni Luciana è stata accompagnata con tenerezza dal marito Giuliano, dalle figlie Alessia e Ilaria e da Ilham Ramdani (chiamata Elena), che si è ben integrata nello spirito di questa famiglia tribolata, ma sempre serena.
Luciana aveva nel cuore il progetto di scrivere la storia della propria vita: dall’infanzia al lavoro, dal matrimonio alla malattia. Il libro effettivamente iniziato è rimasto incompiuto, per l’impossibilità di essere autonoma nell’utilizzo del computer. Le pagine più belle Luciana le ha scritte con il coraggio con cui ha affrontato la malattia e ha testimoniato la passione per la vita, nonostante le varie limitazioni provocate dalla malattia. Per lungo tempo ha potuto comunicare solo col movimento degli occhi: puntava lo sguardo sulle lettere dell’alfabeto e i suoi cari interpretavano il suo messaggio. La trasparenza dei suoi occhi è incancellabile in quelli che l’hanno conosciuta.
Ci ha lasciato, a 50 anni, il Sabato Santo del 2005: aveva fatto appendere nella sua stanza l’ulivo, che Rita e Ivana le avevano portato a nome della Comunità in occasione della Domenica delle Palme. Accettava sempre volentieri la visita del parroco e i “segni” che la Parrocchia le faceva pervenire, come pure i “ricordi” portati da Lourdes. Senza parlare apertamente di fede e di preghiera, il suo letto era diventato un altare di offerta a Dio e una cattedra di solidarietà. Quanti la frequentavano, riconoscevano di ricevere tanto da lei e dai suoi cari. Viene in mente quanto diceva Gesù: “Non sei lontano dal Regno di Dio“…
Schietta e sincera, di notevole intelligenza, non si rassegnava di fronte alle difficoltà ma desiderava vedere riconosciuti i diritti dei malati. Alle figlie, maturate in fretta, diceva: “Sono orgogliosa di avervi avuto accanto nella malattia, ma ricordatevi di me nei tanti momenti belli che abbiamo condiviso. Cercate di volervi bene, di aiutarvi sempre e di essere forti in qualsiasi situazione“. È un’eredità preziosa e feconda che lascia a tutti…

Mina Gallanti Rossi (1912 – …)
E, per ultima, ecco una sorpresa. Sorpresa per due motivi:
1) come vi sarete certamente accorti, in questo nostro breve “memoriale” abbiamo presentato soprattutto le storie di persone ormai defunte: Mina, invece, è ancora viva, anzi molto vivace;
2) ricorderete che vi avevamo promesso di non parlare di miracoli ma, come si dice a Napoli, “Quanno ce vò, ce vò” e questo è appunto un caso di cui non si può fare a meno di parlare.
Mina, la decana dell’Azione Cattolica parrocchiale, è una “giovanotta” sempre sorridente, di 94 anni portati con grande disinvoltura (com’è evidente anche dalla sua svelta camminata) che fino a pochi anni fa si spostava in bicicletta perché, come diceva lei: “La bicicletta cura i reumatismi“.
Riconoscerete con noi che tutto questo è già di per sé un miracolo; si potrebbe far punto qui e dire che la storia è finita… invece no, la storia è un’altra e noi ve la racconteremo riportando esattamente le sue parole.
Da piccola, a soli nove mesi, sono stata spinta da un fratellino contro una stufa accesa. L’ustione fu molto grave, colpì l’occhio destro e tutta una parte del viso ne restò così danneggiata che, in seguito, le persone che mi incontravano facevano smorfie di disgusto al vedermi.
Potete immaginare quale fosse la mia umiliazione. Per rimediare a questo danno sarebbe stato necessario un grosso intervento chirurgico ma, a quei tempi, non c’era la Mutua e la mia famiglia non aveva certo i soldi necessari per cure così costose.
Noi eravamo molto poveri di denari, ma ricchi di fede e di speranza; così, anche se gli anni passavano e la mia condizione non migliorava, io e mia mamma continuavamo a pregare e a sperare che la Madonna mi avrebbe aiutato.
Un giorno, era il 15 agosto del 1938, e io avevo allora 26 anni, mi alzai alle cinque del mattino e mi recai in bicicletta a Fontanellato a pregare la Madonna nel suo santuario: alle 9 ero già di ritorno a Salso, pronta a fare il mio dovere, come tutti i giorni. Lavoravo infatti come domestica presso una famiglia che abitava in un palazzo vicino a un albergo.
Quel giorno, mentre sbattevo un tappeto alla finestra, incrociai lo sguardo di un signore che era ospite in quell’albergo e, anche se non lo conoscevo, istintivamente lo salutai e gli sorrisi. Lui era un famoso oculista di Bari: impressionato dal mio viso, chiese di parlarmi e così conobbe la mia storia. Subito si mise all’opera per aiutarmi: scrisse una lettera a un collega di Milano e mi mandò da lui. Questi non solo mi operò gratuitamente ma mi fece fare la plastica al viso da un chirurgo suo amico e trovò anche alcuni benefattori che pagarono le spese del mio soggiorno in ospedale a Milano, durato qualche mese.
Quando tornai, la mia faccia era cambiata: la gente non si voltava più dall’altra parte incontrandomi… poco dopo conobbi un bravo giovane, ci spo-ammo e insieme formammo una famiglia felice.
Quanto ho avuto so di doverlo tutto alla Madonna: l’ho pregata molto prima e ancora adesso la prego ogni giorno per ringraziarla. A modo mio cerco di ricambiare: lavoro per la chiesa e per l’Azione Cattolica, aiuto i miei vicini a vivere con serenità e fiducia…
“.
E qui la storia è veramente finita. Se non vi piace la parola “miracolo“, fate voi, chiamatela “coincidenza“, ma dovete crederci: questa è una storia vera, come vere sono pure tutte le altre che vi abbiamo raccontato.

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