Dal libro “Il primo cinquantennio” di Padre Roberto Lecchini

Eravamo nella notte tra la festa dei Santi e la commemorazione dei Morti, l’uno e il due novembre 1944. Una notte buia e triste per l’oscuramento imposto dallo stato di guerra e per la pioggia dirotta che non finiva più. Restare chiusi nelle proprie case era quanto di meno suggerito dalla prudenza. Ogni suono di campanello alla porta vi accelerava i battiti del cuore. Vi lascio dunque immaginare la mia agitazione quando, un’ora dopo mezzanotte, suonarono alla porta del nostro convento.
La mancanza di coraggio e anche la prudenza avrebbero suggerito di non discendere da solo al pianterreno per aprire. Comunque, pur non sentendomi un cuor di leone in petto, non volevo nemmeno apparire un coniglio. Scesi alla porta e domandai: «Chi è?». «Patrioti». La risposta si presentava equivoca, poiché la Patria era rivendicata tanto dai Partigiani come dai Repubblichini. Comunque aprivo e m’accorgevo subito trattarsi di Partigiani dai quali ero ben conosciuto. Invitavo i due giovani nel mio studio. Chiesi di che si trattava.

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Ecco la risposta:
«Abbiamo circondato il “Villino” e l’intera “Opera Pia Catena”; disponiamo di mitraglie, di bombe a mano e di un cannone per far saltare in aria tutto l’edificio, che serve troppo bene da caserma della “Brigata nera”. O si arrendono o attacchiamo». Risposi: «Io non intendo affatto di difendere la causa della “Brigata nera”, ma devo farvi sapere che il “Villino” occupato dai fascisti è in comunicazione con i locali dell’Opera Pia Catena, che al presente accolgono gli anziani qui traslocati dai ricoveri di Genova. Sarebbe un macello e un disastro, anche solo per lo spavento, di quei poveri vecchi.Dio ce ne guardi!».
Mi risposero: «Se tanto le sta a cuore di impedire ciò che noi abbiamo deciso, poiché guerra è guerra, sappia che noi siamo venuti da lei per pregarla di andare dal comando della “Brigata nera e imporgli, da parte nostra, la resa. Altrimenti entrano in azione il cannone, le mitraglie e le bombe a mano. La guerra è guerra».
Risposi: «Ciò che mi proponete non è né facile né attraente, tuttavia dirò di sì. È però assolutamente necessario che io mi preannunci al Comando della “Brigata nera” con una telefonata. Altrimenti, avvicinandomi nel buio pesto di questo tempaccio, le sentinelle, che stanno all’erta in continuazione per il pericolo di un assalto da parte dei Partigiani, mi accoglierebbero con una sventagliata di mitra da mandarmi all’altro mondo per direttissima». Allora telefoniamo. In quel tempo, ogni telefono della città, per comunicare con gli altri, doveva passare per il centralino telefonico. E così feci. Mi risposero che gli stessi Partigiani avevano tagliato i fili per impedire alla “Brigata nera” di chiamare aiuti per la battaglia imminente.
«E allora?», dissi: «Se non si riallacciano le comunicazioni telefoniche col Villino catena, io non mi sento e non voglio stupidamente tentare un così grave pericolo». La risposta dei Partigiani:
«Allora restiamo d’accordo che lei andrà al Villino Catena domattina alle cinque e ci porterà il responso sul piazzalino della Chiesa del Sacro Cuore. Se qualche cosa di grave le succedesse, noi la vendicheremmo».
«Oh! Troppo gentili! Grazie! Vi dispenso!», dissi.
E tornai a letto senza prendere sonno, pensando come potessi arrivare al Villino al mattino, quando in novembre alle cinque è quasi ancor notte. Ma neanche per sogno si poteva sognare un sogno del genere! Tutto taceva quando si udì un boato nella notte con la scossa di un terremoto e col lampeggio di un fulmine. Che stava succedendo?
Volendo liberare un Partigiano caduto prigioniero il giorno precedente e rinchiuso nel “Villino Catena”, il reparto d’attacco del Battaglione “Forni” della 31 Brigata Garibaldi, con un cannone da 47, una mitragliera da 20 mm e abbondante quantitativo di esplosivo e munizioni, muove alla volta di Salsomaggiore.
Due audaci sabotatori collocano una potente carica esplosiva all’ingresso della caserma, trasformata in un piccolo fortilizio. L’esplosione apre una larga falla, ma la reazione avversaria è immediata e violentissima ed impedisce che l’azione si risolva d’impeto. Cannone e mitragliera aprono il fuoco. È più di un’ora che si combatte quando il comandante dei fascisti, gravemente ferito, esprime il desiderio di iniziare trattative di resa e si invita un Partigiano ad entrare nel villino, mentre alcuni militi, rassegnati al loro destino, escono alla spicciolata e cedono le armi. Ma le trattative non danno nessun risultato e quindi il combattimento si riaccende con maggior violenza. L’accesso al Villino è sempre più difficile perché i fascisti dispongono ancora di molte bombe a mano e sono decisi a resistere fidando nel quasi certo sopraggiunger di rinforzi. Gli attaccanti invece, dopo un fallito ultimo assalto, alle ore dieci sospendono i combattimenti e riprendono la via dei monti, conducendo seco il loro prigioniero e gli otto militi che si erano arresi.
Numerosi i feriti repubblicani, fra i quali ferito a morte il Capitano, che morirà in giornata nell’ospedale di Parma. Fra I Partigiani un solo ferito.
E ora, attingendo dal diario di Suor Vincenza, che va dal dieci settembre al due novembre 1944 e mi fu consegnato, con altri scritti concernenti la di lei vita spirituale, rileggiamo letteralmente quanto si riferisce alla spaventosa notte di cui stiamo parlando.

Sono le due e mezzo del due novembre 1944. La Superiora ed io siamo sveglie e sentiamo un colpo di fucile, diciamo: «Che pensano di fare quei balordi?». Dopo qualche minuto sentiamo dei passi frettolosi correre giù per la strada del Villino e abbiamo pensato che fossero i Partigiani venuti a domandare materassi e coperte, come al solito. Fu in quel momento che un colpo e poi un altro scoppio di mina così forte ci ha terrorizzate. L ‘Opera Pia Catena è rischiarata da una luce così forte che sembra un incendio e i vetri cadono tutti in un colpo con un fragore spaventoso, e ci siamo detto: «Povero Villino, se n’è andato!». Tutta la casa è un grido solo. Noi pensiamo alle nostre povere vecchie e a quelle inferme che non possono muoversi. Scoppiate le mine comincia la battaglia tra Partigiani e Repubblicani. E una mattina veramente d’inferno. Cannoni, mitraglie, mortai, bombe a mano e tutto ciò che l’odio umano può inventare. Si combatte fino alle ore otto. Si può appena immaginare quello che succede all’Opera Pia Catena. Subito andiamo nei dormitori a tranquillizzare le vecchie immobilizzate in letto, mentre quelle che possono camminare le facciamo scendere in rifugio. Il cappellano pensa subito a mettere al sicuro il Santissimo. Chiediamo l’Assoluzione generale, che ci viene impartita dal Sacerdote. Che momento indimenticabile! Le Suore fanno la spola dai rifugi ai dormitori e camere per fare iniezioni, e mettere un po’ di calma dappertutto. C’è un po’ di tregua e poi il Capo dei Parigiani grida: «Arrendetevi, vi diamo dieci minuti; pensateci, salvatevi, se non vi arrendete sarete tutti morti, anche i bambini che sono con voi».
Dopo questa intimazione un buon numero di Repubblicani, visto che le cose si fan sempre più serie, si arrendono. Sono i più giovani i più paurosi, i più vecchi tengono duro. La sparatoria continua così forte che tutto trema intorno a noi, così che si ha l’impressione che la casa debba crollare da un momento all’altro. Ma alle otto è silenzio. Alle otto e trenta il Commissario telefona alla Superiora pregandola di andare al Villino per constatare se vi sono morti o feriti e darne subito relazione. La Superiora va e risponde subito chiedendo medici e Crocerossine, che vennero subito. Si fanno le prime medicazioni e poi si parte per l’ospedale di Parma, dove dopo poche ore il Capitano della Brigata nera muore. Le Suore sorridono alle povere vecchierelle dicendo: «Tania paura! … ma nessun morto. La Medaglia Miracolosa della Madonna vi ha protette. Ringraziamo Dio e la Madonna».

Partiti i militi della Brigata nera, vennero a sostituirli i soldati tedeschi di età avanzala, i quali difficilmente uscivano dalla caserma. Così terminarono le incursioni, tanto da parte dei Tedeschi come da parte dei Partigiani, che scesero dai monti solo alla partenza dei Tedeschi e all’arrivo degli Americani.
Della battaglia del “Villino Catena” si parla anche in Guerra Partigiana, a pag. 119. Leggete.

«Sebbene preparata da qualche settimana e prevista con l’impiego di adeguato numero di uomini e di mezzi, l’azione fu anticipata ed assunse quindi carattere d’improvvisazione, per l’urgente necessità di liberare un partigiano caduto prigioniero il giorno precedente.
Nelle prime ore della notte. il reparto d’attacco, con un cannone da 47, una mitragliera da abbondante quantitativo di esplosivo e munizioni, muove volta di Salsomaggiore. Due audaci sabotatori collocano polente carica esplosiva all’ingresso della caserma, in un piccolo fortilizio. L ‘esplosione apre una larga falla, la reazione avversaria è immediata e violentissima ed impedisce che l’azione si risolva d’impeto. Cannone e mitragliera aprono il fuoco e gli uomini serrano sempre più da presso. più di un’ora di combattimento, il comandante del reparto fascista, gravemente ferito, manifesta il desiderio di iniziare trattative di resa ed un partigiano è fatto entrare nell’edificio, alcuni militi, già rassegnati al loro destino, escono alla spicciolata e cedono le armi. Ma le trattative non danno nessun risultato e pertanto il combattimento si riaccende con maggior violenza. L’accesso all’edificio è sempre più arduo perché il nemico, ben fornito di bombe a mano, è ormai deciso a resistere ad oltranza, fidando nel sopraggiungere di rinforzi. Dopo aver tentato un ultimo assalto, anch’esso fallito, gli attaccanti, già corto di munizioni, trasportano il cannone a poche decine di metri dalla caserma, battendola con fuoco infernale, si da danneggiarla irreparabilmente.
Alle 10 del mattino è gioco forza sospendere l’azione, ma il prigioniero partigiano è liberato e con lui prendono la strada della montagna gli otto militi che si sono arresi.
Numerosi i feriti nemici, fra i quali colpito a morte il capitano della brigata nera. Tra i partigiani, ferito uno dei sabotatori.

Sebbene i Partigiani non abbiano cantato vittoria ritornando ai monti, anche i fascisti hanno dovuto partire dalla loro caserma.

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