Dal libro “Il primo cinquantennio” di Padre Roberto Lecchini

Le battaglie non servono a riportare la pace, ma intensificano sempre più quell’odio che conduce i fratelli a uccidere i fratelli senza vantaggio alcuno per chi ama la pace, la fraternità e il progresso civile e con lo sporco guadagno di chi pesca nel torbido.
E allora che dire e che fare?
Dire nulla, ma fare molto e subito.
Così ragionavano privatamente i due Parroci di Salsomaggiore e decidono di invitare i capi delle due correnti ad un raduno, al quale, coi Partigiani e Repubblicani, sarebbero presenti i due Parroci e, per rendere più serio, sacro ed imparziale il convegno, parteciperebbe anche il Vescovo di Fidenza.
Detto e fatto. Tutti accettano l’invito all’appuntamento.
Un giorno, non ben precisato, di gennaio 1945 ci si raduna in una osteria della parrocchia di S. Giovanni in Contignaco, dove gli uni e gli altri ci si stringe amichevolmente la mano e ci si accomoda d’intorno ad un tavolo. I primi a parlare sono i due Parroci, che si susseguono l’un l’altro ragionando così: che la responsabilità della guerra mondiale debbasi attribuire ad un solo colpevole non troverà argomenti plausibili nella storia non ancora scritta. Per il momento possiamo responsabilizzare l’incapacità, l’ingiustizia e la malvagità di coloro che governano il mondo diviso in troppe nazioni. Comunque questo dato di fatto, la guerra, può trovare comprensione in campo mondiale, ma che tra fratelli della stessa nazione, identica razza e uguale religione ci si odi, ci si tradisca e ci si uccida è assolutamente inaccettabile.
E allora lasciamo che il mondo vada verso quella perdizione che ha meritato e che Dio ha permesso in castigo di troppe iniquità e godiamoci la pace chi nelle nostre case, chi nelle caserme e chi sui nostri monti, in attesa di tempi migliori. E se anche non si vuole arrivare ad un saluto cordiale vicendevole, ci si ignori.
Lo credereste? Per un’intera settimana ci si trovava nello stesso bar o nella stessa piazza ignorandosi a vicenda. Fu così che un ufficiale tedesco, venuto a far provvista di gas metano per la sua auto, rimase sbalordito, osservando come quei giovanotti chiamati Partigiani facessero altrettanto senza minimamente interessarsi di lui.
Una decisione del genere la pensiamo unica tra i Partigiani e i fascisti d’Italia.
L’armistizio però fu di breve durata poiché quando lo scandalo arrivò a cognizione del Comando Generale intanato in un vecchio convento lontano sui monti, si gridò: «La guerra è guerra!».
Sì! Perché non è pace, purtroppo!
Allora noi dicemmo ai partigiani: «A Salsomaggiore, volendo, si può benissimo vivere in pace, anche se il mondo è in guerra, come prima: evitarsi, ignorarsi, rispettarsi reciprocamente». Sembrava che tutto marciasse a puntino quando, di punto in bianco, riscoppiò la guerra. Siamo all’8 ottobre 1944; è domenica. Terminata la celebrazione della S. Messa delle dieci, il Parroco di S. Antonio esce sul piazzale della chiesa, dove si incontra col comandante della «Brigata nera», che, come detto, s’era trasferita nel villino dell’Opera Pia Catena. Col comandante c’era pure un sottufficiale. I due stavano parlando col parroco del come andava la guerra mondiale, quando laggiù di fronte a noi, sulla strada, che costeggia la stazione ferroviaria, apparvero, provenienti dai monti, tre o quattro camions pieni di Partigiani diretti verso Fidenza. Il Capitano disse al sottufficiale: «Sono i Partigiani, nascondiamoci per prudenza». Infatti i Partigiani si arrestarono balzando dai camions e, attraverso il prato, ora tramutato nel viale Affanni, si diressero verso di noi correndo e sparando con l’intenzione di circondare chiesa e convento per impadronirsi del comandante della «Brigata nera».
Mi ci volle tutto il mio coraggio e prestigio che ormai avevo acquistato sui Partigiani, per far tacere la sparatoria, ormai inutile, poiché i due Repubblicani erano riusciti a nascondersi sulla volta della chiesa.
Le pallottole erano penetrate anche in qualche camera del convento e anche in sacrestia, dove l’immagine della Madonna, coperta dal vetro, venne perforata poco più di un centimetro sotto l’occhio destro. Chi vuole, può ancora guardarla oggi e mandarle un bacio poiché là resterà per sempre a ricordo di quei giorni veramente calamitosi.
Tornata la calma, invitai il capo gruppo di quella spedizione, che si era imposto il nome di battaglia «Attila», ma che i camerati chiamavano «Roncarone» (il suo vero nome era Germani Carlo comandante di distaccamento); a venire nel mio ufficio parrocchiale. Gli dissi: «Questi non mi sembrerebbero i modi migliori di mantenere la parola data, che era di “ignorarsi”. Dunque permettetemi di dire che la vostra sparatoria ha tutti i requisiti di un tradimento. La risposta non poteva essere che questa: «Sa, se non li avessimo veduti pubblicamente, come avvenuto… non potevamo che attenerci agli ordini dei nostri comandanti. E guerra! Si deve combattere».
Io tronco il discorso e, rivolge•ne101iii ad Attila, gli dico scherzando: «Colui che portava il tuo nome era conosciuto e chiamato FLAGELLO Dl DIO, ma tu sei galantuomo e con te si può ragionare. Quindi io vado a chiamare il comandante della Brigata nera e il suo compagno ad un patto: non gli toccherai un capello; d’accordo?».
Attila risponde: «D’accordo; d’onore!».
Salgo, per la prima volta, sotto il tetto della chiesa e dico: «Capitano, non tema; venga contratteremo con galantuomini».

Scendiamo nel mio studio. Ci salutiamo, io do la parola ad Attila, il quale si rivolge al capitano battendogli la mano sulla spalla, gli dice: «Capitano, noi le daremo piena libertà a condizione di avere qui immediatamente le armi della vostra caserma».
Il capitano risponde: «Voi siete molti e io sono solo; ma le armi non le avrete mai!».
Attila replica: «Allora venga a parlare coi nostri comandanti. Andiamo».
«Ma abbiamo promesso che capello…» gli dico.
Mi risponde Attila: dato parola e la manterremo».
I Partigiani riprendono la via dei monti conducendo seco i due fascisti.
È mezzogiorno. Vado a pranzo, non mi sento di mangiare. Penso e ripenso: Non è un abbandono di quei due il mio? Concludo. Andiamo a vedere cosa si può fare di bene e cosa si può evitare di male. Una telefonata all’autista del solito furgoncino, sempre a mia disposizione, e via in volata.Arrivo a Castellaro (villaggio al di sopra di Pellegrino Parmense) quando sta pranzando. Una accoglienza più che cordiale. E vedo che i miei protetti sono bene trattati, diversamente da altri… I comandanti si dicono dispiacenti che «l’inconveniente sia accaduto in Salsomaggiore. Comunque troveremo modo di mandare liberi i due prigionieri nel primo scambio, che non tarderà». Non c’era che dire: «Mi fido di voi». Ritornando indietro di alcune ore nella nostra cronaca, vi aggiungeremo una nota molto triste. Quando nella mattinata i Partigiani sparavano contro la chiesa e il convento di S. Antonio, i Repubblicani rispondevano sparando all’impazzata così da fare una vittima nella persona del nostro parrocchiano Tosi Attilio che s’aggirava nei pressi della Stazione Ferroviaria.
Altra notizia triste: mentre il Parroco si tratteneva con i Comandanti a Castellaro, altri Partigiani rapirono il Podestà di Salsomaggiore conducendolo sui monti. Fortunatamente il rapimento durò per brevissimo tempo.

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