Dal libro “Il primo cinquantennio” di Padre Roberto Lecchini
Eravamo sulle ore dieci di un giorno di novembre del 1944 quando mi si presentò un giovane a me sconosciuto e mi disse: «Non ho il piacere di conoscerla personalmente, ma chi la conosce mi assicura che, se può fare un piacere, lo fa volentieri. E per tale fiducia che mi sono permesso di venire ad importunarla».
«La ringrazio», rispondo, «e sono a sua disposizione».
«Dio la benedica!», mi disse sorridendo il giovane.
«Mi sento davvero in buone mani. La ringrazio in anticipo. Ecco di che si tratta: Ieri sera un nostro Partigiano è caduto nelle mani di una squadra volante tedesca ed ora è detenuto e maltrattato nella stazione militare tedesca presso l’Opera Pia Catena di Salsomaggiore. Poiché anche noi abbiamo catturato e trasferito in montagna un loro maresciallo, proponiamo uno scambio vicendevole. Se rifiutate la proposta, gravi sarebbero le conseguenze, per noi e per loro. È quanto vorremmo: proporre ai Tedeschi lo scambio».
Poiché, per carattere, sono portato più all’ottimismo che al pessimismo, giudicai che il compito assegnatomi non avrebbe avuto nulla di pericoloso per me. Quindi la risposta non poté essere che questa: «Se non chiedete altro, sono pronto a servirvi».
In pochi minuti raggiungo la caserma e chiedo di presentarmi al Comandante. Mentre attendo, mi si avvicina un Capitano e, informato del motivo di mia venuta, mi dice sottovoce: «Non bono quello che fare». Rispondo: «Non capisco il perché».
Frattanto sono pregato di entrare dal Comandante. Comprendo subito che la faccenda è seria: intorno al Comandante stanno altri ufficiali, nonché un interprete e uno stenografo per annotare interrogazioni e risposte.
Espongo la richiesta del Partigiano, ma non ottengo risposta; per il momento ai Tedeschi, più che rispondere, serve interrogare:
«Come mai i Partigiani sono ricorsi a lei per questo servizio e non ad altri?»
«Non saprei dire altro», risposi, «se non perché di un sacerdote, tanto più se loro Parroco, si fidano più che di un altro e anche perché gli altri difficilmente vanno in cerca di grattacapi». Altra interrogazione:
«Chi è quel tale che si è rivolto a lei?»
«Non lo conosco affatto».
Queste ed altre poche domande di minor importanza e conclusione:
«Lei con questi tre ufficiali andrà a Parma per esporre al Comando superiore quanto ha esposto a noi».
Era mezzogiorno e si partiva per Parma, dove, arrivati, io chiesi di andare a pranzo presso i miei confratelli Cappuccini nel Borgo S. Caterina 12. «No», mi risposero, «venga con noi». E mi condussero ad una mensa militare situata nei locali dell’Università, dove potei pranzare decorosamente e sufficientemente.
«Verremo a richiamarla» mi dissero e se ne andarono, o finsero.
Avevo creduto di poter trattare direttamente con le competenti Autorità, mentre invece attesi ore ed ore inutilmente. Non avrei saputo se in me avessero il predominio gli sbadigli della noia, o l’agitazione di tristi previsioni.
Era già sera quando, finalmente, gli stessi che mi avevano condotto a Parma vennero a dirmi: «Torniamo a Salsomaggiore». Dopo un’ora circa eravamo a Salso, precisamente davanti alla chiesa di S. Antonio. Io ero arrivato a mia destinazione e quindi mi alzai per scendere, sennonché i miei conducenti mi dissero: «Andiamo in caserma per sentire quanto stabilito a Parma». Avanti pure, sino alla caserma, dove l’ufficiale di più alto grado disse al Comandante: Colonnello ha dato ordini di rimandare P. Roberto Lecchini al suo convento. Null’ altro».
Rientro nel mio convento all’ora di cena quando i miei confratelli mi attendevano con molta preoccupazione, poiché non era tanto facile il ritorno a casa per chi era caduto nelle mani dei Tedeschi. Comunque, ringraziamo Dio, poiché è bello e buono ciò che finisce bene. Ma ahimè! Suona il campanello alla porta del convento. Ci guardiamo l’un l’altro in senso interrogativo e preoccupato. Si alza premuroso frate Pellegrino (detto Pacetta) e va ad aprire. Erano tre ufficiali che cercavano del Parroco. Il portinaio prega di attendere mentre corre a chiamarmi. Scendo e, con meraviglia, mi trovo di fronte a quegli stessi ufficiali che mi avevano condotto e ricondotto da Parma. Chiedo il perché di quel ritorno. Mi ripetono argomenti di nessuna importanza o comunque già trattati in giornata, e poi, quasi sottovoce, il più responsabile dei tre mi chiede: «Chi ha nel piano di sopra? Noi dobbiamo procedere ad una perquisizione. Questi sono gli ordini».
E io: «E queste sono le chiavi, e quella è la porta, e quella è la scala, venite». Vado avanti e mi seguono. Ad un certo l’agitazione mi rende furibondo e grido: «Questo è un tradimento! Comunque venite, cercate, frugate nelle camere, sui solai, sui tetti. Andate!».
A quel mio furore il tenente si arresta a metà scala e, con gli occhi bassi, mormora: «Dobbiamo fare così, perché troppe volte ci hanno ingannati».
E io: «Di me dovevate fidarvi perché a Salsomaggiore tutti conoscono. Ci vuol poco a capire il piano che avevate imbastito: i partigiani che sono in attesa di risposta di P. Roberto, appena che egli torna in convento vengono da lui per sapere, e noi li sorprendiamo sul fatto».
II tenente non aggiunse parola, ma mormorò tra sé: «Che vitaccia è la nostra!». Provai dentro di me un sentimento di tenerezza e di compassione.
Seppi poi che lo scambio richiesto avvenne. Con i tedeschi non ebbi altri incontri